Non posso né voglio esimermi dal fare gli auguri alle donne che in questo momento stanno leggendo queste righe, ma più in generale alle donne di tutto il mondo in occasione della loro festa. Ricordare che c’è una ricorrenza che richiama tutti ad una maggiore attenzione verso la loro condizione, significa riconoscere le loro qualità, i loro problemi, le loro straordinarie potenzialità. Significa riconoscere il loro lavoro e il loro sacrificio. Per ogni cosa che esse ottengono, quasi sempre hanno dovuto pagare un prezzo più alto degli uomini e quindi hanno potuto maturare un senso di concretezza, di dovere e di lavoro che è un elemento prezioso per l’intera società, un “bene comune” messo a disposizione dei bisogni e delle speranze di tutti.
Non vorrei parlare, tuttavia, della festa delle donne in modo rituale, nell’ottica di una celebrazione che ricorre una volta l’anno. Ci sono altri che lo faranno certamente meglio di me, alcuni – lo dico col sorriso sulle labbra – veri specialisti di eventi celebrativi. Ne vorrei parlare, invece, in modo problematico, sottolineando certo la gioia della festa e i valori positivi ad essa legati, ma anche non tacendo le questioni aperte, il cammino da fare, l’impegno da rinnovare. Per un approccio di questo tipo, credo sia utile avere una chiave che ci aiuti a capire le contraddizioni in cui siamo avvolti e in cui si trovano a vivere le donne che attraversano la nostra quotidianità. Questa chiave può essere quella dei diritti, ripetutamente e insistentemente proclamati, ma spesso negati nei fatti e, talvolta, nello stesso diritto.
Farò tre esempi. Il primo è quello delle donne che con un fagotto tra le braccia, in cui è nascosto e protetto un bambino spesso di pochi mesi, percorre strade interminabili e attraversa tratti di mare per salvare la sua famiglia dalle guerre e dalle violenze. Ogni donna sa quante speranze e quanti sogni sono legati all’idea di farsi una propria famiglia, di avere dei figli, uno spazio riservato dove poterli crescere e dove coltivare gli affetti. Tutto vanificato d’un tratto, tutto distrutto, con il rischio di perdere quanto costruito con fatica, i propri beni e talvolta la vita stessa. Le immagini dei bambini sfuggiti dalle mani dei genitori e affogati nel Mediterraneo lasceranno un segno insanabile nelle nostre coscienze.
Eppure tutto questo sembra non bastare ai Paesi europei, che per lungo tempo sono restati alla finestra a guardare l’Italia e la Grecia alle prese, quasi da sole, con ondate di migranti e innumerevoli interventi di salvataggio in mare di vite umane. Oggi, di fronte alle obiettive difficoltà di sostenere l’accoglienza di flussi inaspettati e giganteschi, diversi Governi alzano muri, ognuno a difesa dei suoi particolari interessi, rendendo difficile la soluzione di problemi che, se affrontati insieme e con spirito di reciproca comprensione e solidarietà, sarebbero meno gravosi e più risolvibili. Senza preoccuparsi troppo del fatto che se salta quel grande miracolo di coesione e fluidità di rapporti che è stato Schengen, l’intero impianto europeo può essere minato e il sogno unitario progressivamente dissolversi.
Ecco, voglio dire che finché a quelle donne non viene riconosciuto il diritto alla vita, alla salvezza dei propri figli e dei propri cari, alla protezione dalla violenza, alla costruzione di un’esistenza sicura e migliore non vi potrà essere vera festa per le donne del mondo, o almeno un’ombra profonda si proietterà sulla loro ricorrenza.
Un secondo esempio è quello dei diritti civili. Non parlo ora di luoghi estremi del pianeta, solcati dalle guerre e dalla violenza, ma della civile Europa e della civilissima Italia. Nelle scorse settimane, il dibattito politico e il confronto parlamentare si è infiammato sul tema delle unioni civili e delle convivenze di fatto. Il Governo ha rischiato l’osso del collo mettendo la fiducia su un provvedimento riguardante diritti civili: non so se era mai accaduto. Lo ha fatto, per altro, in una sede ad alto rischio, qual è il Senato, dove i numeri sono ristretti. Ha rischiato e ha vinto, anche se ora la parola definitiva tocca alla Camera.
Capisco che guardare dall’estero all’aspro confronto sulle unioni civili e sulla stepchild adoption può sembrare una situazione lunare. In tanti Paesi questi riconoscimenti già sono avvenuti da tempo e gli stessi organismi europei hanno più volte richiamato l’Italia a provvedere in questo senso. Ma parlando con parenti e amici più anziani, sono restata colpita dalla loro incredulità e dalla loro sorpresa. Uno di loro mi ha detto: “Per tutta la mia vita ho misurato i progressi della società italiana dai passi in avanti compiuti sul terreno dei diritti civili. Pensavo che nella mia vita, in questa Italia in cui l’assemblea dei vescovi non ha remore ad intervenire sistematicamente sulle vicende politiche di ogni giorno, soprattutto se si tratta di diritti civili, non avrei assistito al riconoscimento dei diritti di persone dello stesso sesso che decidono di condividere la loro vita”.
Ora questo è accaduto, sia pure con prudenze, filtri e cose a metà tra il detto e il non detto. Anche sotto questo profilo, la visuale della donna è diversa, più penetrante. Essa ha storicamente subito la subalternità, la separazione, l’esclusione e ogni giorno deve lottare per l’uguaglianza dei diritti. Ebbene, non sarà mai piena festa per la donna finché, soprattutto in Paesi sotto tanti piani avanzati come l’Italia, non si supererà la diseguaglianza e l’esclusione dai diritti di persone che costruiscono la loro vita al di fuori degli schemi sociali e mentali tradizionali. Tanto più se la ragione forte che le spinge a realizzare le loro unioni è l’amore.
Il terzo esempio è quello che ci riguarda più da vicino: la donna in emigrazione. La sua vita è stata un continuo cammino sulla strada della conquista dei diritti. A partire dalla lacerante decisione di lasciare il proprio ambiente di vita per coltivare la speranza di migliorare la propria esistenza e quella dei propri cari, ricominciando da capo in altri e difficili contesti. Il diritto ad avere un lavoro che le consentisse di emanciparsi, pur restando gravata del peso dell’impegno di cura familiare. Il diritto di avere un’istruzione per i propri figli, in modo che non diventassero i diseguali e i subalterni in una nuova terra. La spinta ai familiari a non restare chiusi nella cerchia parentale e paesana, ma ad integrarsi. Il diritto di vivere e possedere la modernità, ma anche il dovere di coltivare le radici, i legami con le origini, gli affetti ancora vivi nei luoghi di partenza.
Oggi si è ripreso a partire. In condizioni diverse e con protagonisti diversi. Ma la separazione e l’insediamento in nuovi ambienti di vita sono sempre prove impegnative e difficili, che implicano costi umani elevati. Anche in questo caso, dunque, per le donne emigrate non sarà mai piena festa finché sotto i loro occhi si svolgeranno le stesse storie di sacrificio che hanno solcato la loro vita e le loro esperienze. Ma la forza che quelle che sono arrivate prima hanno dimostrato e il loro approdo positivo fanno sperare che anche le donne che arrivano oggi ce la faranno. Buon 8 marzo.
Articolo di Francesca La Marca per «America Oggi», 6 marzo 2016