Il mio articolo scritto per il supplemento domenicale del quotidiano “America Oggi” (domenica 14 giugno)
Le manifestazioni di protesta che con crescente intensità si sono susseguite dopo la morte di George Floyd si sono estese in diversi Paesi del mondo, comprese l’Europa e l’Italia. Qualcuno dirà che non c’è da sorprendersi, c’era anzi da aspettarselo dal momento che i movimenti di protesta contro le discriminazioni razziali o, tout court, contro le discriminazioni di qualsiasi natura sono ormai catene mondiali, pronte a entrare in trazione ogni volta che una qualche circostanza accenda la tensione civile.
Questo è vero, ma è anche una spiegazione troppo facile per cogliere fino in fondo le ragioni della grande fiammata che sta avvampando in USA e nel mondo.
Intanto c’è una peculiarità che andrebbe considerata con maggiore attenzione.
Si tratta del ritorno più ampio e diffuso alla presenza nelle strade e nelle piazze dopo l’irrompere della pandemia e la prescrizione delle regole di distanziamento sociale che esso ha comportato. E anche se in molte manifestazioni si è cercato di tenere conto di tali regole, è evidente che l’impulso che muove tante persone, se non è incurante, è quantomeno sincero e profondo, più sentito degli stessi legittimi timori che riguardano la salute personale.
Voglio dire subito che le considerazioni che sento di fare su questi drammatici passaggi della vita civile di un grande Paese come gli Stati Uniti e di altri nei quali il movimento antirazzista si sta manifestando le esprimo come cittadina di Paesi – il Canada e l’Italia – storicamente e profondamente amici del popolo americano. Da rappresentante istituzionale, ho avuto sempre e continuerò ad avere il più sincero rispetto per la vita interna di altre realtà e per la loro autonomia istituzionale e politica. Quindi, un doveroso riserbo.
Tuttavia, la piega che le cose stanno prendendo mettono in discussione due grandi principi che attengono non tanto agli ordinamenti dei singoli Stati quanto alle prerogative di ogni uomo in quanto tale, in una dimensione universale.
Il primo è l’uguaglianza tra gli uomini e il rispetto delle persone, senza differenza di razza, di convinzione religiosa e politica e di condizione sociale. È un principio cardine inserito nelle Costituzioni di tutti i Paesi democratici, in quanto proiezione di un valore universale sul quale, al di là delle particolari caratterizzazioni storiche, la nostra civiltà da secoli si basa.
Su questo piano credo non si possa ne’ si debba essere reticenti. Per quanto mi riguarda, le ragioni ideali ed etiche che sono alla base della mia formazione mi portano a dichiarare senza se e senza ma la mia contrarietà ad ogni forma di discriminazione razziale, comunque ammantata, anzi ad ogni forma di discriminazione vecchia e nuova, a partire da quella di genere.
Il secondo principio che in queste ore è in discussione riguarda il rispetto della propria storia e della propria identità. Si tratta certamente di una posizione meno lineare e più complessa, ma io l’intendo come un’espressione del primo motivo, come una realizzazione dell’uguaglianza e della libertà delle persone.
Come tutti sappiamo, nell’articolato movimento antirazzista, che, come tutti i movimenti di massa al suo interno ha molte e diverse anime, stanno riemergendo posizioni che in nome della sacrosanta difesa dei nativi in terra d’America e della altrettanto sacrosanta condanna del loro genocidio sono propensi a cancellare gli sviluppi storici che in quelle realtà si sono avuti a seguito dell’arrivo degli europei e a distruggerne i simboli visivi. Ad iniziare da quelli riguardanti Cristoforo Colombo che nel tempo hanno dato forma al mito colombiano e della scoperta.
Ho già detto in altra occasione, anche su queste colonne, che la figura di Colombo nella sua dimensione storica, anche nel rapporto con le popolazioni native, va riconsegnata appunto agli storici perché facciano fino in fondo e con il massimo scrupolo critico il loro lavoro. Per questo, credo sarebbe sbagliato rispondere al mito colombiano con un anti-mito dissolutore, a prescindere da una più approfondita e ragionata verifica.
È difficile, comunque, dare torto alla Farnesina quando afferma che la scoperta dell’America va considerata non come un antefatto della storia del genocidio dei popoli ma come un “patrimonio dell’umanità” che ha cambiato il corso della storia del mondo.
C’è ancora un altro punto che mi interessa mettere in chiaro pur da un’angolazione chiaramente egualitaria e antirazzista. E riguarda la costruzione dei grandi Paesi che sul suolo d’America è avvenuta nella fase moderna e contemporanea.
Questi Paesi, chi più chi meno, hanno alle loro spalle una lunga e profonda vicenda di immigrazione, di incontro e di amalgama di gente diversa, di sintesi di tensioni positive e di lavoro. Hanno alle spalle anche una pesante vicenda di schiavismo che ha lasciato strascichi duraturi e profondi, presenti purtroppo ancora oggi, e storie di dominanza e di sfruttamento. Ma in tempi più recenti, se sfruttamento c’è stato è avvenuto da parte di gruppi economici e sociali consolidati a spese di altri gruppi sociali arrivati per dare il proprio lavoro in cambio di una promessa di vita migliore. E gli italiani sono storicamente tra questi.
Molti dei simboli che oggi sono sotto attacco appartengono alla nostra storia di emigranti, al lungo e faticoso percorso che abbiamo dovuto fare non per affermare un dominio, che non c’è mai stato, ma per superare una condizione di emarginazione, di sfruttamento e talvolta addirittura di persecuzione, da News Orleans a Sacchi e Vanzetti. Per affermare una presenza di dignità e di autonomia nella nuova Patria scelta per realizzare la propria vita e aprire una strada ai propri figli, una Patria per la quale la comunità italiana non ha esitato a versare il suo sangue nel momento della prova più difficile, quella di una guerra mondiale, che pure vedeva il Paese delle origini sciaguratamente schierato nel fronte nemico.
Ecco perché, da antirazzista convinta, sento di dovere difendere, con la stessa tenacia e la stessa ansia di liberazione e di uguaglianza, i segni che la mia gente ha lasciato nel corso del tempo nella società americana come simbolo della sua emancipazione, della sua parità di cittadinanza, della sua dignità.
Si può essere, dunque, antirazzista e difensore dei simboli della presenza italiana in terra d’America? Sì, si può essere. Per quanto mi riguarda, sento di esserlo per un rispetto della storia della mia gente e per un dovere sociale ed etico nei suoi confronti.