E’ difficile trovare parole che non suonino inadatte e vuote rispetto all’immane tragedia che ancora una volta ha travolto, a ridosso delle coste italiane, i migranti diretti verso l’Europa. In questi giorni, sui social network, sono riaffiorate le immagini di un’altra tragedia simbolo, che agli inizi del Novecento ha coinvolto altri migranti, naufragati a poche centinaia di metri dalle coste spagnole, quella della nave Sirio diretta in Sud America con il suo carico di uomini e donne, mossi da una comune speranza di miglioramento.

Quella volta i migranti erano italiani e i morti che si contarono furono più di cinquecento. Le immagini ricomparse di quel lontano evento mostrano la fila dei corpi giacenti sulle banchine, avvolti in un sacco e con il solo volto scoperto, per facilitare un pietoso riconoscimento.
Da quella tragica vicenda è passato più di un secolo, sono cambiate troppe cose nello scenario internazionale e nella società italiana che forse sconsigliano facili collegamenti emotivi. Eppure, non posso fare a meno di dire che sul piano etico e della solidarietà umana l’unica differenza che trovo tra quei migranti che s’inabissarono nelle acque di Porto Palos e quelli scomparsi nel mercantile dolosamente incendiato nelle acque di Lampedusa è il colore della pelle: la cosa meno essenziale della vita di un uomo.
Per quello che vale, con grande convinzione aggiungo la mia voce a quella di coloro che chiedono che il Nobel per la pace sia assegnato al popolo di Lampedusa e alla sua amministrazione comunale. Non una pacca sulla spalla, ma un segnale al mondo affinché il valore della solidarietà umana sia messo al centro del rapporto, privato e pubblico, con i migranti, come più volte ha detto lo stesso Papa Francesco; e anche un richiamo all’Europa perché dimostri di saper affrontare in modo unitario ed efficace un’emergenza che per un solo Paese, quale l’Italia, rischia di essere incontenibile.
Ma intanto la politica e le istituzioni non possono più limitarsi alle dichiarazioni di cordoglio e devono dare risposte concrete ed urgenti ad un fenomeno ormai strutturale, destinato a durare nel tempo. Senza attendere impotenti altre tragedie e altri lutti. Dal 1988 almeno 19.144 giovani sono morti tentando di arrivare in Europa. Che si aspetta ancora?
La prima cosa da fare è superare il reato di clandestinità, che si è rivelato uno strumento poco efficace nel frenare i veri clandestini e un’arma tagliente per i più inermi e i più sfruttati dai mercanti di uomini. Non mi sorprende che Beppe Grillo si sia dichiarato per il mantenimento della Bossi-Fini, dettando ancora una volta la “linea” ai parlamentari che si erano già orientati in senso diverso.
Il mestiere dei populisti è sempre stato quello di parlare alle viscere della gente pur di ottenerne il consenso, tanto irrazionale quanto talvolta imbarazzante, se non vergognoso. Non si tratta, naturalmente, di liberalizzare gli accessi a chicchessia, ma di adottare misure ad un tempo più efficaci ed umane e, almeno, ad evitare che una legge dello Stato costringa giudici e forze dell’ordine a perseguire penalmente persone mentre stanno ancora piangendo i loro morti.

Si tratta, in sostanza, non solo di mutare l’approccio etico verso i migranti, ma anche di rendersi conto, come dicono gli studi più accreditati, che la presenza di stranieri in Italia e negli altri Paesi europei è diventata necessaria per le stesse società di accoglimento. E si tratta di una presenza destinata a crescere, com’è accaduto in realtà avanzate e civilissime, come la Svizzera, la Francia, la Germania e i Paesi scandinavi. Tra l’altro, i recenti rapporti sull’immigrazione in Italia testimoniano che gli immigrati sono stati quelli più colpiti dalla crisi e, nello stesso tempo, la forza più flessibile per rispondere alle esigenze economiche e sociali che la stessa crisi sta determinando.
Gli stessi immigrati più consapevoli sono convinti che, oltre a rispondere ad esigenze immediate e drammatiche, è tempo ormai di avviare processi lunghi di formazione rivolti alle nuove generazioni per fare in modo che l’integrazione e l’interculturalità diventino le stelle polari non solo delle azioni pubbliche ma anche delle relazioni interpersonali. Per rispondere a questa esigenza, in Parlamento ho firmato, assieme ai miei colleghi del Gruppo PD eletti all’estero, alcune proposte di legge che si muovono in questa direzione.
La prima riguarda l’assunzione di un progetto per l’insegnamento interdisciplinare dell’emigrazione italiana e dei movimenti migratori che interessano l’Italia nelle scuole di ogni ordine e grado, sulla base di un’autonoma scelta che i singoli istituti possono fare nel quadro della programmazione formativa da essi adottata.
La seconda è quella dell’istituzione di un museo nazionale delle migrazioni che partendo dall’attuale condizione dell’italianità nel mondo e dei flussi in arrivo nel Paese, ricostruisca il significato delle migrazioni a livello nazionale e globale nella storia contemporanea e realizzi un sistema a rete che metta insieme i musei locali, i centri di ricerca e i musei stranieri che contengono i segni più rilevanti della presenza degli italiani nel mondo.
La terza è quella dell’istituzione di un Consiglio nazionale per l’integrazione e il multiculturalismo che possa facilitare il dialogo e l’assunzione di comuni responsabilità tra le nostre istituzioni e i rappresentanti delle associazioni degli immigrati. Queste iniziative ci sembra anche uno dei modi, certo non l’unico, per innestare il patrimonio culturale ed etico della nostra emigrazione nei percorsi di cambiamento della società italiana, in modo che possa diventare un fermento attivo di coesione sociale e civile.